The Borderline, i social e una questione morale che nessuno vuole e può risolvere

TL;DR Dietro l’incidente di Casal Palocco, che ha avuto la tragica conseguenza della morte di un bimbo di 5 anni, ci sono a mio modesto parere questioni modali e sociali che nessuno vuole (e può?) risolvere, legate ad una evoluzione tecnologica fuori controllo e non ben compresa.

Un aspetto sul quale cerco sempre di lavorare è il coinvolgimento emotivo del momento, soprattutto quando avvengono tragedie come quella che ha causato la morte di un bimbo di 5 anni. Sull’onda emotiva dell’indignazione e del dolore, un popolo che è abituato a ragionare di pancia e vivere la vita come fosse allo Stadio rischia di esacerbare rapidamente i toni ed alzare, talvolta in modo non giustificato, i toni della discussione.

La questione non è, a mio modesto parere, esclusivamente se i ragazzi in Laborghini avessero, o meno, torto. Se chi guidava per una stupida challenge su TikTok di “50 ore un auto” è un criminale o meno.

C’è qualcosa di più, qualcosa di più profondo e più ampio di un tragico incidente stradale che ha coinvolto un gruppo di tiktoker a causato la morte di un bambino.

La prima questione è il ruolo che i social network stanno avendo sulle nuove generazioni. Se per noi degli anni ’70, ’80 e ’90 i social sono stati l’occasione di incontrare amici e parenti lontani e dimenticati, azzerando le distanze fisiche e favorendo nuove forme di sociabilità, per i giovani queste piattaforme private sono diventate pericolosi artefatti di realtà dove tutto è misurato esclusivamente in popolarità.

Una forma di popolarità distorta misurata in follower che, automaticamente, danno accesso a sponsorizzazioni, soldi e successo. Non più una società dove il benessere economico si poteva conquistare con le competenze e le capacità, ormai superate (lo skill shortage ne è una conseguenza?) ma, tutt’altro, c’è quasi un elogio collettivo nell’ignoranza, nella maleducazione, nella prepotenza e nell’individualismo sfrenato. Perché, che ci piaccia o meno, è questo che oggi sembra essere premiante.

Mi sorprende e un po’ mi indigna che ci sia chi si è sorpreso e indignato del comportanto di questi tiktoker: basta aprire un qualsiasi social usato dalle nuove generazioni per scoprire un universo fatto di spericolatezze di ogni tipo sulle nostre strade, non solo nell’impunità quanto proprio nell’acclamazione di migliaia di follower che, invece di denunciare comportamenti pericolosi, gli esaltano. A cui, chiaramente, si accodano gli sponsor alla ricerca di vettori di visibilità per i loro prodotti.

I social sono quindi co-responsabili? A mio parere, solo in parte. La responsabilità dei social è l’amplificazione, su portata mondiale, di comportamenti che rimanevano, nell’era pre-social, circoscritti al quartiere o al paesello. Una amplificazione che causa emulazione, acclamazione, follower. Amplificata, a sua volta, dal successo effimero dei “like” che si traduce, poi, nel ben meno effimero introito economico che ne consegue.

Il tutto, come abbiamo avuto conferma anche in questo tragico incidente, con il benestare e supporti di genitori compiacenti. Che trovo difficile biasimare, purtroppo, perché vedono i propri figli guadagnare fior di migliaia di euro invece di finire precari in qualche cucina di un ristorante di periferia con il dottorato in tasca.

Se la vicenda ha fatto particolare scalpore solo ed esclusivamente per la tragica conseguenza (ricordiamo comunque che in Italia, ogni anno, ci sono oltre 2800 morti a causa di incidenti stradali, oltre a più di 200.000 feriti[1]), non posso fare a meno di chiedermi cosa pensassero quei 400.000 follower che seguivano il canale dei The Borderline, così come gli altri centinaia di follower che seguono analoghi canali con protagonisti che compiono analoghe spericolatezze sulla pubblica via: aspettiamo l’ennesima tragedia, prima che le forze dell’ordine decidano di stoppare questa follia? Forse perché i follower di questi canali sono i nostri figli, se non proprio noi stessi, dimenticando che quello che vediamo sullo schermo dello smartphone non è una finzione cinematografica realizzata in qualche studio televisivo o da stuntman.

Già, perché le sanzioni esistono già e i politici che si preoccupano, nell’onda di indignazione popolare, di apparire in TV a garantire “giti di vite” e maggiore severità forse dimenticano che le nostre strade sono scarsamente presidiate dalle forze dell’ordine. Che il territorio è perlopiù sguarnito di operatori di polizia e che la videosorveglianza che ha invaso le nostre vie, con la scusa della “maggiore sicurezza”, viene soprattuto usata a posteriori, quando ormai il danno è fatto (e la vicenda della bimba di 5 anni scomparsa a Firenze ne è un esempio piuttosto evidente, a mio parere). E che, come chi opera nell’ambito della sicurezza informatica ben sa, spesso basterebbe avere il presidio dei contesti digitali per prevenire una discreta fetta di reati.

Mai come in questi anni l’evoluzione delle tecnologie digitali ha stravolto la società e allontanato le generazioni, stravolgendo i costrutti sociali con i quali siamo cresciuti ed educati, elogiando e premiando economicamente moderne forme di business (tiktoker, youtuber, onlyfans...) impensabili fino a solo 10 anni fa, incomprensibili alle generazioni precedenti ai millenials.

I nostri giovani sono esposti e stimolati a una sovraesposizione mediatica impressionante e preoccupante. Ogni aspetto della loro quotidianità, sessualità compresa, viene registrata dagli smartphone, immancabili nelle loro mani, e spiattellata sui social network, usata come strumento di visibilità e guadagno. Che, come dicevo prima, è difficile da biasimare quando la società italiana ha del tutto avvilito, con stipendi ridicoli e precariato, il mondo del lavoro tradizionale.

Se poi, per sentirci tutti meno responsabili preferiamo buttare la nostra rabbia e frustrazione addosso a questi 4 ragazzi, facciamolo pure. Fino alla prossima disgrazia annunciata, ovviamente.

[1] http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_MORTIFERITISTR1

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