La pubblicità in Rete e la libertà di espressione

“Viviamo un paradosso: tutto resta e tutto è rintracciabile con facilità straordinaria. Dalla propria poltrona, dalla propria scrivania, con qualche parola chiave si ritrovano cose che un tempo richiedevano ricerca, casualità, viaggi, fortuna e ostinazione. Solo che il web ha un problema: per cercare le cose in quell’oceano di dati, di informazioni, di immagini, devi sapere già cosa cercare.”
Roberto Cotroneo

Ha sollevato un caso mediatico la decisione di Google AdSense di escludere dal circuito di raccolta pubblicitaria siti web che diffondono bufale o fanno clickbaiting, tra cui Byoblu, il portale di Claudio Messora.

La decisione di Google sarebbe passata quasi inosservata se non fosse che proprio Messora ne ha fatto un caso sulla “libertà di espressione”, poiché il sostentamento economico del blog era basato sulla raccolta pubblicitaria di AdSense.

La vicenda merita comunque una riflessione: probabilmente il più importante network pubblicitario mondiale, Google AdSense, può decidere la vita e la morte di un blog semplicemente escludendolo dalla raccolta pubblicitaria ? E può essere considerata, questa decisione, un attacco alla libertà di espressione ?

Il Web, così come la Rete, nascono come strumenti di ricerca non commerciali. Pertanto sin da subito si instaura la convinzione che tutto ciò che è in rete è “gratis”. Questo paradigma ha indubbiamente fatto crescere enormemente il numero di prosumer  (neologismo nato da producer+consumer, utenti che sono sia fruitori che creatori di contenuti) e dei contenuti disponibili. Chiunque, infatti, può aprire un blog gratuito su una delle tante piattaforme di hosting disponibili oppure, con pochi euro annuali, acquistare un dominio ed uno spazio web (come è zerozone.it, ad esempio). Se da un lato, però, questo ha aumentato esponenzialmente il numero di informazioni disponibili, dall’altro ha generato talmente tanti contenuti da essere difficilmente rintracciabili e fruibili. Per questo motivo sono nati strumenti come i motori di ricerca, che continuamente scandagliano il web ed indicizzano tutti i contenuti trovati per renderli ricercabili.

Stime indicano che i contenuti indicizzati dai motori di ricerca sono solamente una percentuale di quelli effettivamente presenti in rete, senza considerare il mondo del dark web, accessibile solamente attraverso connessioni cifrate.

Si intuisce pertanto che la sfida sul web non è più esserci ma farsi trovare.

Inoltre, la massiccia presenta di giganti del Web come Google, con il motore di ricerca più usato al mondo, rendono sempre più importante ottimizzare i propri contenuti per favorirne l’indicizzazione, aumentando le chances di essere visitati. Non a caso, sul tema è nata una nuova figura professionale, il SEO specialist, specialista nel Search Engine Optimization.

Avere molti visitatori, però, richiede server con prestazioni importanti e connessione alla Rete veloce, poiché il tempo massimo di attesa che un utente è disposto ad aspettare per il caricamento della pagina è solo una manciata di secondi, dopodiché abbandona e cerca altrove. E queste due caratteristiche, oltre ad un sito web piacevole e user friendly, hanno un costo non sempre trascurabile. Ed è qui che si inserisce la pubblicità: non potendo far pagare per la fruizione dei contenuti, la raccolta pubblicitaria permette di coprire (almeno parzialmente) le spese di funzionamento.

Da esperienza personale, con svariati siti web, posso dire che arricchirsi con la pubblicità è praticamente impossibile, se non estremamente difficile. Un portale con qualche migliaio di visitatori  ed una presenza non asfissiante di pubblicità riesce a raccogliere poche decine di centesimi di € al giorno: in fondo all’anno, un sito web del genere, difficilmente supera i 100€. Che sono una cifra, comunque, sufficiente a coprire almeno le spese di hosting..

E’ qui che si inserisce la polemica sull’attacco alla libertà di espressione: bloccando la raccolta pubblicitaria su alcuni portali, si boicotta di fatto l’esistenza stessa di tali siti web. A meno che, ovviamente, non si decida di pagare interamente di tasca propria le spese o si riesca a reperire qualche generoso sponsor per continuare la propria presenza sul web.

A questo punto, una volta inquadrato il nocciolo della questione (che non è proprio un attacco alla libertà di espressione, diritto costituzionalmente garantito di ben altra levatura rispetto al diritto di far soldi con la pubblicità), vorrei chiarire due aspetti: il primo sulle motivazioni che possano aver portato AdSense a tale decisione ed il secondo sulle conseguenze dirette della decisione stessa.

Guadagnare sul web semplicemente mostrando nel proprio sito web dei banner pubblicitari ha portato alcuni furbacchioni a tentare in ogni modo di massimizzare le entrate, sia attraverso titoloni acchiappaclick (il cosiddetto clickbaiting) spesso falsi o travisanti il reale contenuto del post. Da qui, immaginate di essere titolari di una azienda e domandatevi se avreste voluto vedere il vostro logo su tali siti, rischiando di esserne accomunati e quindi con conseguente danno di immagine. Io credo di no. Pertanto la condivisibile decisione di Google AdSense può essere letta anche in chiave di autotutela, assolutamente legittima (anche se opinabile) per una azienda privata a finalità commerciale.

Le conseguenze di tale decisione potranno tradursi, e lo auspico veramente, in uno sforzo maggiore per offrire contenuti di qualità non esclusivamente finalizzati al guadagno o, almeno, non direttamente: un blog dovrebbe essere lo strumento per far conoscere le proprie idee, le proprie conoscenze, le proprie capacità. Non il modo per racimolare qualche euro a fine mese.

P.S. Ricordo a tutti che utilizzare Google AdSense sul proprio sito ci rende clienti del servizio, che è regolamentato come indicato nelle FAQ di AdSense, tra cui le Ad placement policies.

 

 

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