Sul potere che abbiamo dato alle piattaforme sociali

“Non si può conoscere veramente la natura e il carattere di un uomo
fino a che non lo si vede gestire il potere.”
Sofocle

L’indomani dell’assalto dei manifestanti pro-Trump a Capitol Hill, alcune piattaforme social, tra cui Twitter, Facebook e Instagram, hanno sospeso l’account del presidente USA Donald Trump.

La sospensione, ma soprattutto le conseguenze della sospensione, mostra in modo inequivocabile il grande potere che noi utenti abbiamo dato a queste piattaforme sociali. Tanto da arrivare a essere strumento d’informazione privilegiato, probabilmente perché senza i filtri dell’Informazione mainstream, di gran parte della classe politica mondiale. Non è certo una novità che la Stampa si affidi, spesso, a questi canali per portare avanti il loro lavoro d’informazione, amplificando –e quindi indirettamente promuovendo– il ruolo di queste piattaforme. Che sono, è importante ricordarlo, strumenti privati in mano ad aziende private, con le loro regole (decise dai consigli di amministrazione) e nessun ruolo democraticamente eletto al loro interno. Il loro obiettivo è fare soldi, dividendi per azionisti e investitori. Come possiamo, quindi, pretendere che assumano un atteggiamento democratico?

Qualcuno potrebbe obiettare che la Stampa è soggetta comunque a regole. Ma i social non sono Stampa, perché i contenuti sono generati dagli stessi utenti senza alcun filtro redazionale, senza alcuna linea editoriale, senza alcun direttore responsabile se non l’autore del contenuto stesso. E se, in qualche modo, queste piattaforme ci danno l’illusione di poter dire la nostra al mondo intero (quando, spesso e volentieri, al massimo siamo letti dagli altri che sono nella nostra bolla…), per contro hanno evidenziato la grande responsabilità di fare Informazione.

Non citerò la massima di Umberto Eco ma la grande quantità con cui circolano, anche grazie alle piattaforme sociali, le informazioni nel mondo contemporaneo ha provocato l’aumento dell’impatto di alcuni fenomeni come le fake news, la diffusione delle teorie del complotto e la possibilità, per i terrapiattisti, di incontrare e dialogare più facilmente con chi pensa che il Pianeta Terra sia piatto. Ma c’è ben altro, di molto più grave: l’utilizzo delle piattaforme sociali per diffondere informazioni atte a modificare la percezione della realtà, per ottenere un certo tipo di risultato politico. La storia degli ultimi anni ne è piena (Russiagate, la vicenda Facebook/Cambridge Analytica, Brexit) e sono tutte operazioni svolte attraverso l’utilizzo di queste piattaforme.

Se i primi anni dell’evoluzione di queste piattaforme, da MySpace a Orkut in poi, sono state contraddistinte da un grande entusiasmo e curiosità, l’essere diventati luoghi di sociabilità virtuale ha mostrato come vi si ricreino, amplificati, le medesime dinamiche dei luoghi reali. Con la differenza che, sui social, trascorriamo davvero tanto tempo: secondo le ultime statistiche disponibili, nel 2019 siamo arrivati a 2 ore e 23 minuti in media al giorno. Nel 2015 eravamo a 1 ora e 50 minuti. Nel 2012, poco più di un’ora e mezzo. L’aumento del tempo di presenza sui canali sociali è probabilmente correlato al tempo di connessione alla Rete e alla facilità e diffusione degli strumenti come smartphone e tablet: in ogni momento della giornata è sempre possibile dare uno sguardo alla bacheca di Facebook, al feed di Instagram e agli ultimi tweet su Twitter. Hanno letteralmente catturato la nostra attenzione e sono progettate per farlo (il film The Social Dilemma, se non lo avete ancora visto, spiega molto bene come ci riescono), perché la nostra attenzione è monetizzabile, insieme ai nostri dati.

Si è così creato un perfetto circolo vizioso in cui, per avere attenzione, vengono utilizzate le piattaforme che meglio riescono a catturarla e venderla, tanto da essere disposti a pagarle per ottenerla. Ecco come i social sono diventati strumento perfetto di propaganda politica, consegnando un enorme potere nelle mani di pochissime aziende private (si contano nelle dita di una mano). Ed ecco perché l’utilizzo di leve come il blocco del profilo social sono, prima di tutto, atti di enorme rilevanza politica in un contesto privato, non soggetto ad alcun controllo democratico. E più diamo importanza a queste azioni, più confermiamo l’importanza che queste piattaforme hanno nel playground politico e democratico mondiale.

La domanda finale, quindi, è: fin quando possiamo permetterlo e permettercelo?

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