Lo smartphone ci farà prendere la multa ?

“Il telefono è il più grande fastidio tra le comodità, la
più grande comodità tra i fastidi.” Robert Staughton Lynd

La notizia che Google registrerebbe la nostra posizione anche se abbiamo esplicitamente scelto di non comunicarla ha generato tutta una serie di lecite domande su quanto gli smartphone siano ormai invasivi per la nostra privacy.

Al di là degli scenari distopici che serie televisive come Black Mirror hanno immaginato per il nostro futuro, c’è tutta una serie di tecnologie che, in qualche modo, potrebbero già essere utilizzate per identificare i nostri comportamenti (a volerla proprio dire tutta, già in altri paesi proprio gli smartphone sono stati usati per identificare i partecipanti ad alcune proteste contro il Governo).

Ormai il nostro smartphone è diventato qualcosa di più di un semplice strumento: è parte essenziale delle nostre attività quotidiane. Leggiamo le notizie, la posta elettronica, consultiamo il percorso stradale e relativo traffico (in tempo reale, come Waze, azienda acquisita da Google), interagiamo sui social. Per gran parte di queste operazioni il nostro smartphone comunica tutta una serie di metadati, ad esempio quelli relativi alla nostra posizione (GPS o triangolazione basata sui ripetitori GSM) a provider esterni, come Google, Facebook o Twitter.

Metadati che, entrati nel grande calderone della Big Data analysis, potenzialmente rivelano cosa stiamo facendo, con chi lo stiamo facendo, chi abbiamo vicino ed a cosa potremmo essere interessati: vi è mai capitato di vedere, sullo schermo dello smartphone, qualcosa tipo “Cosa ne pensi di Ristorante XX ? Lascia la tua recensione !” ?

E se, in un futuro neanche troppo lontano, questi dati venissero usati per sanzionarci ? Eventi come “eccesso di velocità” o “divieto di sosta” sono già agevolmente tracciabili proprio attraverso il nostro telefonino (avete mai dato un’occhiata alla storia delle vostre attività su Google ? Fatelo, giusto per curiosità: https://www.google.com/maps/timeline) e tutte le informazioni sono registrate su servers di proprietà di Google, regolate attraverso contratti di servizio e privacy policy che consentono comunque ai Governi di accedere ai nostri dati in certe situazioni (solo l’Italia ha avanzato, nel secondo semestre 2017, oltre 1000 richieste di accesso e/o conservazione a Google).

Il nostro smartphone, inoltre, ha a bordo anche altri sensori: luminosità dell’ambiente (usata per regolare la luminosità del display ma che può rivelare il tipo di ambiente in cui ci troviamo), temperatura, sensori per il movimento e accelerometro (che può rivelare se stiamo facendo attività fisica e di quale tipo, ad esempio sessuale). Tutti dati che vengono usati lecitamente da applicazioni quali Google Fit ma che rivelano le nostre abitudini e possono, quindi, essere potenzialmente utilizzati sia per scopi promozionali (pubblicità !) che per controllarci: non sappiamo esattamente fino a che punto è giunta l’invasività delle agenzie governative su tali dati ma scandali come Cambridge Analytica hanno, finalmente, puntato i riflettori sull’uso (o abuso) che viene fatto dei nostri metadati personali.

Al di là del potere persuasivo che i nuovi media (social networks in primis) hanno su tutti noi, capaci di influenzare le nostre scelte politiche e, quindi, di condizionare lo stato delle nostre democrazie, questa enorme mole di metadati personale che riguarda ognuno di noi, a cui si aggiungono tutti gli altri dati come le e-mail, la cronologia dei siti web che visitiamo, le ricerche sul Web, i video su Youtube, le prenotazioni per le vacanze e molto altro, mette in mano a pochissimi grandi attori, come Google, Facebook ed Apple, uno straordinario potere.

Anche se l’attenzione è concentrata quasi tutta su Facebook, ci tengo a ricordare come, secondo alcune stime, Google sa di noi almeno 10 volte più di quanto conosce Facebook….

Giusto per chiarire, non è che tutta questa raccolta di dati sia necessariamente un male: alcune ricerche in campo medico stanno rivolgendosi proprio a come sfruttare questi metadati per effettuare diagnosi anche preventive sui pazienti, identificando potenziali patologie o fattori di rischio.

Ma la questione, qui, non è tanto lo scopo più o meno nobile che viene fatto dell’analisi delle nostre abitudini quanto la consapevolezza di ciò che abbiamo nelle nostre mani: uno strumento tecnologicamente avanzato che troppo spesso usiamo con leggerezza (e lo facciamo usare ai nostri figli), senza comprenderne a pieno le potenziali conseguenze.

Non è del resto un mistero che nel settore del recruiting la verifica dei profili sociali è ormai prassi consolidata: quale impressione pensate che possa fare un aspirante impiegato con una timeline di Facebook piena di situazioni imbarazzanti ?

Anche se le aziende stanno sempre di più implementando sistemi di protezione e sicurezza per i nostri dati, come la crittografia per gli smartphone (introdotta di recente su quasi tutti i sistemi Android e iPhone), spesso siamo proprio noi, gli utenti, a cedere volontariamente tali informazioni in cambio di servizi.  Gratuiti, certo, ma che si finanziano attraverso l’analisi e la gestione dei nostri dati a scopi (per ora) pubblicitari.

Sta a noi, ad ognuno di noi, capire il grado di invasività che desidera nella sua vita privata. In questa società del controllo, “la battaglia nascosta per raccogliere i vostri dati e controllare il vostro mondo” (cit. Bruce Schneier), la consapevolezza di ciò che usiamo, come lo usiamo e delle possibili conseguenze è ancora più importante.

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